Il MOSE è marcio? Come il sistema alla base delle grandi opere inutili

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Alberto Vitucci, su l’Espresso, ha fatto una breve, ma documentata inchiesta sulla situazione di quella grande infrastruttura che dovrebbe difendere Venezia da allagamenti chiamata MOSE (acronimo di Modulo sperimentale elettromeccanico), una serie di dighe mobili che dovrebbero entrare in funzione in caso di “acqua alta” in laguna.

L’ultima grave magagna che sta venendo fuori – ma è proprio l’ultima di una lunga serie – è che si sono scelti i materiali sbagliati per le cerniere su cui dovrebbero ruotare gli elementi mobili delle dighe; queste sono già soggette a forte corrosione e non potranno resistere per i periodi previsti dal progetto. Gli esperti di materiali che sono stati chiamati a risolvere i problemi si sono dimessi denunciando l’impossibilità di lavorare seriamente.

Il MOSE è uno dei principali emblemi del disastro infrastrutturale italiano; non tanto quello falsamente sbandierato dal potente partito trasversale del cemento della sua presunta carenza in Italia, ma quello che sta caratterizzando l’inutilità, la cattiva realizzazione, i costi enormi dei nuovi progetti su cui si vorrebbe basare le ripresa del paese dopo le ripetute crisi economiche che lo hanno colpito.

Non possiamo dimenticare l’inchiesta iniziata proprio nel 2014 su fenomeni di corruzione pesantissimi che hanno interessato l’opera dove sono stati coinvolti politici, magistrati e imprenditori in una rete criminale così capillare da lasciare storditi; nello stesso periodo si sono avute in Italia altre importanti inchieste attorno alle “grandi opere”: tra le altre nel 2016 il Terzo Valico è stato oggetto di una inchiesta definita “amalgama” proprio per la diffusa viscosità del sistema corruttivo che i magistrati hanno rilevato; nel 2013 prima e nel 2015 poi a Firenze le indagini della magistratura hanno rilevato, oltre che comportamenti criminali nell’esecuzione dell’opera, un “sistema” di gestione dei processi di autorizzazione e controllo delle opere dove politica e imprenditoria violavano anche le norme del buon senso oltre che delle leggi ordinarie.

Il modello normativo fiorentino e genovese del project financing, come quello veneziano della concessione ad un consorzio unico, hanno garantito decenni di opacità e connivenza della politica nel furto di risorse pubbliche e provocato danni enormi all’ambiente. Anche i problemi tecnici che ricorrono sempre in queste opere ormai è chiaro che non sono infortuni; Massimo Cacciari, cui va sicuramente il merito di essere stato l’unico, da sindaco di Venezia, a votare contro il mostro del MOSE, chiede che anche gli “incompetenti” che hanno consentito il disastro siano perseguiti come i corrotti. Purtroppo ci pare che anche Cacciari non abbia colto un aspetto particolare di tutte le grandi opere inutili: i problemi tecnici che possono sorgere fanno prolungare i lavori, crescere i costi dell’opera, aumentare i profitti delle imprese. Il fatto che problemi tecnici gravi sorgano sempre in queste infrastrutture si spiega solo col fatto che probabilmente la cattiva progettazione è pianificata, voluta; le grandi opere inutili non nascono per risolvere problemi, ma per garantire un flusso di profitti che sia il più generoso e costante possibile. Questo è consentito dal prolungarsi dei cantieri e dei lavori.

Quest’ultima mazzata alla credibilità del progetto MOSE chiamerebbe in causa pesantemente il potere politico, in particolare quello legislativo, che dovrebbe porre fine ai disastri causati da una normativa opaca e dal ricorso costante all’emergenza; emergenza che non accorcia i tempi di realizzazione, ma paradossalmente li fa crescere. Al contrario la ventilata pioggia di miliardi che si prevede arrivare dall’Unione Europea la si vorrebbe gestire in gran parte realizzando ancora pacchi di cemento, abolendo totalmente il Codice degli Appalti e creando commissari per ogni grande cantiere che si prevede di aprire.

Ci pare che questa sia la ricetta perfetta per continuare a gestire il disastro e probabilmente per perdere una buona parte dei finanziamenti previsti che, al contrario, l’UE vincola a precisi calendari di realizzazione.

 

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